Sull’artigianato “povero” (e “meno povero”) della                          Calabria.

di Mario Strati


            In La Calabria /libro sussidiario di cultura regionale, lavoro tanto interessante quanto poco conosciuto, Corrado Alvaro mette in evidenza che la propria regione, la Calabria appunto (i cui «primi abitatori» furono figli, secondo la leggenda, «del più ingegnoso uomo dei tempi favolosi: Dedalo, il quale tentò perfino di volare […]»), conobbe soltanto «un breve periodo di splendore: quando fu chiamata Magna Grecia o Grande Grecia, perché civilissima e bellissima tra i paesi civili e belli dell’antichità. Dopo, per oltre duemila anni, fu preda di eserciti invasori.  Il  popolo si ritirò sulle montagne lasciando piani e mari deserti, e lassù conservò le sue tradizioni […]»[1].
            Sì. Se risaliamo ai primordi della nostra origine greca e accettiamo il mito (ed è doveroso farlo perché rappresenta la nostra infanzia), scopriamo che la  creatività è per noi calabresi una prerogativa innata, una componente del nostro codice genetico; se invece ci soffermiamo a valutare le condizioni che nei secoli abbiamo dovuto accettare per imposizione storica, allora ci accorgiamo che la tradizione del patrimonio culturale è stata, per ogni nostra comunità, per ogni nostra generazione, non tanto una libera opzione quanto una necessità di sopravvivenza. Isolate infatti nei vecchi paesi tra i boschi (e nelle valli o sulle alture), per scelta e per necessità, a volte lontane tra loro pochi chilometri, in realtà separate da distanze abissali per mancanza di strade e per le conseguenti enormi difficoltà di scambi commerciali e di rapporti sociali, le nostre popolazioni sono  vissute sino ai primi anni del secondo dopoguerra, ovvero sino all’altro ieri, in un isolamento pressoché totale, ognuna a sé stante, ognuna di per sé necessariamente autonoma, ognuna costretta ad accettare del passato usi e i costumi che ha poi dovuto salvaguardare, magari arricchire, per infine tramandare. È stato un bene ed è stato un male… E per mettere in evidenza i due aspetti bisognerebbe affrontare il problema criticamente, diversificarlo e analizzarlo in tutte le sue componenti… Per ovvi motivi non mi è possibile farlo. Mi limito a sottolineare che negli ultimi settant’anni (pur con la facilitazione viaria dovuta all’autostrada e al proliferare delle superstrade, nonostante l’era dei mass media e l’invasione del linguaggio televisivo e la crescita economica) in Calabria abbiamo avuto un susseguirsi di classi politiche e sindacali che, per pochezza culturale e mancanza di legalità e moralità, hanno condannato il nostro passato a un progressivo inesorabile dissolvimento: solo in questi ultimi tempi è venuta maturando da una parte l’opportunità di prendere coscienza delle ‘nostre radici’ e dall’altra la conseguente necessità di ‘recuperare le nostre tradizioni’.


            Tradizioni sta per “costumi”, “leggi”, “folclore”, “memorie”, “leggende”, “abitudini”, “usanze”, “notizie storiche”, sinonimi i cui significati quando non coincidono variano tra di loro solo per sfumature, ma sta anche per “artigianato” e “maestranze”. (E uso quest’ultimo vocabolo, di sapore squisitamente arcaico, nell’accezione che aveva qualche secolo fa quando, nel suo significato più immediato si riconoscevano, in polemica col tardo Umanesimo e quasi preludio al prossimo Rinascimento, i rappresentanti delle attività ‘meccaniche’, ovvero ‘manuali’, e tra questi il grande Leonardo da Vinci che non senza un pizzico di civetteria era solito firmarsi “omo sanza lettere”).
            Recupero delle tradizioni, dunque, e del passato, che è come dire recupero dell’artigianato e delle maestranze.
            Il nostro artigianato (un nostro tipo di artigianato) è sempre stato originale e oltremodo vario: da quello del legno (con le stecche da busto intagliate a ricamo, con i vari tipi di conocchie dalle punte terminali costituenti figure scolpite,  con l’arcolaio pressoché presente in ogni famiglia e inteso, nelle sue forme dialettali, come anímulu o anímola o anívulu o anívuδu o nímulu, con le spole e i fusi e le “gùsciole” dai disegni minuti e aggraziati, con i collari di capra dai motivi architettonici traforati), a quello del corno con le saliere e le tabacchiere e i bicchieri da pastore e i contenitori per polvere da sparo incisi ora con figure geometriche ora con immagini sacre; da quello dei gioielli in oro e argento con perle e pietre ricco di orecchini (“a mandorla”, “a navicella”, “a goccia piatta”, “a cerchio lunato”) e di collane (con pendenti a forma ovale, di ferro di cavallo, di orologio), a quello che è dovuto ai costruttori di canestri e ceste, e ai “crivari” (e il lettore calabrese sa certo cosa dico perché conosce bene il significato di “panaru/a” “cófina” [“cófana”/ “cóhina”] “crivu/a”…); da quello della maiolica e della terracotta con i vasi a quattro braccia, le lucerne a quattro fuochi, le borracce a forma di pesce o a ciambella, le fiasche a forma di chioccia, a quello del merletto e della tessitura, che richiederebbe per l’importanza assunta nei secoli un vero e proprio trattato. Era un artigianato, quello del merletto e della tessitura, alimentato da due precise tradizioni, una a indirizzo prevalentemente commerciale (sorta tra il nono e l’undicesimo secolo si mantenne fiorente, in un alternarsi di momenti più o meno fortunati, sino alla fine del ventesimo secolo ), e l’altra d’impostazione strettamente, “gelosamente” domestica, la cui nascita si confonde con l’origine greca della popolazione. La prima, relativamente facile da ricostruire dal punto di vista storico, era accentrata sulla produzione e la lavorazione della seta, o meglio sull’arte della seta, i cui statuti venivano pubblicati, a Catanzaro (città i cui broccati e damaschi e velluti erano apprezzati in tutta l’Europa e dove le corporazioni di categoria, setaioli filatori tintori, erano riunite in Confraternite), nel 1519, “quasi un decennio prima di quelli di Firenze”. La seconda era fiorente in modo specifico là dove c’erano ragazze da marito, praticamente in tutta la regione. In Calabria infatti ogni ragazza, per quanto povera fosse, doveva avere, sposandosi (orgoglio di famiglia e tradizione lo imponevano), il suo “corredo”. Un certo numero di asciugamani (24, 48, 60), un certo numero di “servizi da tavola” (per sei, per otto o per dodici), un certo numero di “drizz’i lettu”, cioè di “completi” per letto, ovvero paia di lenzuola comprensive di federe (che potevano essere “a tre orli” o “a sacco”), e un certo numero di coperte. Corredo che si costruiva da sola, con le proprie mani, aiutata e istruita dalla madre, coadiuvata magari, ogni tanto, dall’amica del cuore. I materiali usati erano quello “nobile” della seta e quelli meno nobili del cotone, del lino, della lana, della canapa e della ginestra. Gli strumenti erano tanti: la conocchia, il fuso, l’arcolaio, l’incannatoio, l’uncinetto, il tombolo, il telaio...
        Corrado Alvaro, sempre nel suo Sussidiario di cultura regionale, rende testimonianza che i nostri tessuti, «ideati ed eseguiti dalle donne di casa» senza «nessun intento di lucro, ma coll’intento solo di fornire il corredo alle giovani spose», non varcavano «quasi mai il cerchio delle famiglie» in seno alle quali venivano creati: un «vecchio telaio» accoglieva «trama e ordito»; dal «prossimo campo» si otteneva il lino; la «capra e la pecora domestica» fornivano la lana; il «bozzolo, coltivato in famiglia,» dava «il filo di seta»; mentre «le erbe raccolte e filtrate dalle stesse tessitrici» fornivano «i colori» («quei colori caldi come il sole» delle nostre terre e luminosi come i nostri orizzonti). 
            Era una tradizione, quest’ultima, dal fascino particolare, diversificata in più componenti di cui è ancora Alvaro a parlarci, con la sua voce inconfondibile: certi «giorni erano pieni del rumore delle gramole che rompevano il lino per la biancheria» scrive in È passato il tempo che Berta filava: «e certe sere d’inverno erano uno sferrettare [sic] sul filo perlato delle calzette; alla tosa, che era gran festa poco prima di questi giorni, e si mangiava e si beveva in montagna mentre la pecora era nuda, succedeva il rumore soffice della cardatura; al sole più caldo dell’inverno che terminava, il filo dolce usciva dalla conocchia come una bava, poi si torceva raso attorno al fuso che era la prima voce della primavera quando trottolava sulla pietra della soglia dove le donne potevano filare al sole. E poi il telaio, una grande gabbia che occupava una stanza a terreno, batteva col ritmo dei tamburi estivi. Nel traliccio la spola era spinta da una mano breve; aveva forma di nave, dentro c’era il gheriglio del filo sottile. L’anno si poteva dividere secondo queste operazioni, al loro suono». 
            Anche le maestranze, da cui l’artigianato dipende, avevano il loro fascino particolare. Tutte le maestranze. Ed erano tante. Oggi alcune sono scomparse, altre in via d’estinzione. Non è facile ormai trovare, per esempio, il costruttore di ciaramelle (o cornamuse o zampogne). Già ch’è difficile trovare il suonatore, ormai, di ciaramelle, cioè “u cerameḍḍaru” o “ciarameḷḷaru”, o “ciaramiḷḷaru” o “ciaramejaru”. Così come è difficile trovare “u mbastaru”, cioè il bastaio (anche se in fondo gli asini non mancano).
            Ricordo che ancora negli anni Cinquanta il mio paese d’origine, Sant’Agata, era famoso nel circondario di Bianco per i suoi mastri: sarti, calzolai, falegnami, muratori… Questi ultimi costituivano una categoria a parte, quasi una casta. Di uno di loro troppo preso da un lavoro che richiedeva perizia (una soglia di cemento che doveva “venire” perfetta, la rifinitura d’uno spigolo o d’una cornice, un rivestimento piuttosto delicato, le proporzioni d’un forno o di un caminetto), dicevano che stava facendo le ciglia o le sopracciglia alla Santa Patrona. Ovviamente c’era, nella frase e nel tono con cui veniva pronunciata, una marcata ironia, ma ne traspariva anche uno sfondo serioso. 
            Al mio paese ogni mastro era orgoglioso del proprio mestiere, e quando capitava l’occasione non mancava di ostentare con prosopopea il suo segno di riconoscimento: il metro di nastro al collo, quello di legno o metallo nella tasca di dietro dei pantaloni, il grembiule sporco di lucido essiccato sul davanti, il lapis grosso e piatto sull’orecchio. Era un piccolo paese, il mio, i cui abitanti avevano un senso spiccato per l’arte: un paese di mastri e di ‘summastri’ che mi ricordavano, per la passione che mettevano nel lavoro, per la precisione con cui lo eseguivano, per il rispetto e la dignità di cui lo circondavano, l’atmosfera di certe botteghe fiorentine del Trecento e della prima metà del Quattrocento (almeno come io me le immaginavo).
            Dov’è più quel mondo? Dove trovare ancora uomini simili? «È una civiltà che scompare», scriveva sempre il nostro Corrado Alvaro e sempre in Gente in Aspromonte (secondo capitolo del racconto eponimo) «e su di essa non c’è da piangere, ma bisogna trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie». 
            Noi, che in Calabria siamo nati e ci viviamo, noi che di Alvaro siamo gli eredi, abbiamo fatto nostro il suo testamento spirituale?… Siamo riusciti a strappare all’inesorabilità del tempo quella civiltà?… La nostra civiltà?

 

[1]      C. Alvaro, La Calabria, Lanciano, Giuseppe Carabba, 1925, p. 5 (in ristampa anastatica [con Premessa  di Aldo M. Morace e Introduzione di Antonio Delfino] Iiriti Editore, Reggio Cal., 2003).

[2]      A. Gentili, Artigianato (Handicraft/ Artisanat/ Handwerk) in Calabria, Roma, Carlo Bestetti Edizioni d’Arte, 1971, p. 31.

[3]      G. Beniscelli, Un lavoro sulla porta di casa, Genova, Editore SIAG, s. d., p. 190.

[4]      C. Alvaro, La Calabria…, p. 152.

[5]      C. Alvaro, È passato il tempo che Berta filava, in Scritti dispersi, 1921-1956 (introduzione di Walter Pedullà, a cura e con postfazione di Mario Strati), Milano, Bompiani, 1995, p. 520.

[6]      C. Alvaro, Gente in Aspromonte, Firenze, Le Monnier, 1930 

 

       Per il materiale fotografico si ringraziano il dottor Domenico Stranieri (giornalista e sindaco di Sant'Agata del Bianco) e il signor Antonio Scarfone (di Sant'Agata del Bianco, ideatore e custode del "Museo delle cose perdute").



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