Il discepolo ignoto: metafora del dolore del mondo. Un romanzo poco conosciuto di Francesco Perri.
Il 3/1/2022 è stato pubblicato su “Il Quotidiano del Sud” questo interessante
articolo del prof. Giuseppe Italiano.
Se si
volesse considerare la distinzione tra “scrittori magri” e “scrittori grassi”,
sicuramente Francesco Perri verrebbe inserito tra i secondi. Tale
distinzione, che è dello scrittore
inglese Gilbert Keith Chesterton (Londra 1874 - Beaconsfield 1936) e che è
stata ripresa da Giuseppe Tomasi di Lampedusa e da Walter Pedullà, spesso perde
il suo valore indicativo, poiché vi sono scrittori difficilmente collocabili
nell’una o nell’altra parte. Per Perri il dubbio non c’è: egli è uno scrittore
che non lavora a sfoltire, tende piuttosto ad impinguare la pagina; quindi uno
“scrittore grasso”.
Il discepolo ignoto (Garzanti, Milano, 1940) è l’opera più emblematica del suo stile folto; un grande affresco di masse umane in attesa di nuovi eventi capaci di cambiare il mondo. L’opera ebbe un lungo periodo di gestazione. Dalla seconda metà degli anni Venti, le esigenze pratiche della vita non concessero allo Scrittore molto tempo per lavori che non fossero immediatamente remunerativi. Perri aveva pagato a caro prezzo il suo coraggio di scrittore: I conquistatori, del 1925, primo romanzo italiano apertamente antifascista, gli aveva fatto perdere il posto di lavoro alle Poste e gli aveva precluso le possibilità di collaborazione su giornali o riviste.
Tra le riduzioni per ragazzi che lo Scrittore esegue vi è il capolavoro del polacco Henryk Sienkiewicz; riduzione che viene pubblicata nel 1935 dalla UTET di Torino. Si tratta di quel fortunato Quo Vadis?, che avrà esercitato una tale influenza sul cristiano Perri, da indurlo, o da convincerlo del tutto, ad affrontare un lavoro per certi aspetti simile a quello del Premio Nobel polacco: simile per l’ambientazione geo-storica contrassegnata dal contrasto tra mondo pagano in crisi e mondo cristiano in atto di affermazione.
Il
dramma che l’uomo sentiva e che gli derivava dalla precarietà della vita in
quel determinato periodo, fu il dramma che lo Scrittore volle rappresentare,
traslato ai primi anni dell’era cristiana, con distacco temporale di quasi
venti secoli. Era impresa nuova nella letteratura italiana di quei decenni.
Perri si rifugiò con la fantasia nella Roma imperiale di Tiberio e nella
Galilea; e trasferì là le sue ansie.
Riversò la sua empatia al dolore umano in una storia che prende lo spunto da un passo del Vangelo di Marco. Nel narrare l’arresto di Gesù nel Getsemani, così l’Evangelista: «E tutti, lasciatolo, se ne fuggirono. E un certo giovinetto lo seguiva, vestito di lino sulla nuda carne, e i soldati lo presero, ma egli, lasciando andare il panno di lino, se ne fuggì ignudo» (cfr. Mc 14, 50-52). Solo Marco, tra gli evangelisti, scrive di lui. Perri attua, a modo suo, uno dei punti della polemica romantica e antilluministica: arriva cioè a spiegare con la fantasia e col sentimento ciò che era negato spiegare con l’intelletto. E crea una storia il cui cardine è costituito da tale giovinetto; gli dà un nome, Marco Adonia, e lo fa protagonista del suo lungo romanzo.
Attorno
a questa trama, ridotta all’essenziale, ruotano episodi satelliti, abilmente
innestati dall’autore alla storia principale. C’è in Perri una considerevole
capacità nel dipanare le vicende e nel mantenere sveglia l’attenzione del
lettore. Egli fa sfoggio, nel Discepolo ignoto, di un vasto vocabolario, assai
apprezzabile per un approfondimento puntuale del mondo che andava
rappresentando. Il suo narrare assume spesso il costrutto sintattico dei grandi
classici dell’epica; conosceva benissimo il mondo classico e ad esso sapeva
adattare la sua fantasia.
La terza
parte della storia, intitolata La buona novella, appare la più riuscita, la
meno “grassa” di tutto il romanzo: vi traspare una maggiore attenzione ad
evitare il peso delle ripetizioni; e le azioni vengono talora efficacemente
rappresentate non nella loro successione cronologia, ma in particolari
analessi.
Il Perri
ama procedere nella scrittura attraverso linee narrative orizzontali e distese.
Il pathos è reso dalla drammaticità degli eventi, dalle immagini icastiche, dalla
grande sofferenza che sembra aleggiare su ogni cosa. Tutto il romanzo diventa
metafora del dolore universale del genere umano.
Perri era stato punito pesantemente per il suo spirito di
libertà; non volle più narrare palesemente ciò che gli urgeva dentro e prese a
pretesto la storia per poterla metaforizzare. Ecco che i delatori del periodo
imperiale diventano allegoria delle spie del “ventennio”; ecco che la prudenza
espressa dal precettore-filosofo Magacle - «la verità deve guardarsi bene
dall’apparire» - altro non è che la necessaria «dissimulazione onesta»
(Torquato Accetto, Della dissimulazione onesta, a cura di Salvatore Silvano
Nigro, Einaudi, Torino, 1997. È un trattatello del 1641. Accetto è nato a Trani
intorno al 1590) per poter sopravvivere
al regime dittatoriale; ecco che, in alcune pagine, lo stesso Tiberio ricorda
il capo del Fascismo.
Si legge a pagina 375 a proposito del Dio unico: «Aveva dato
ai suoi figli il dolore come un divino rimedio alla loro inferma natura, e come
correttivo all’incomparabile dono della libertà. Come il sale e la tempesta
purificano e rendono salubre l’acqua del mare, così il dolore purifica l’uomo».
Il religioso Perri, deluso dagli uomini, si rivolge al Dio degli onesti; e così
conclude il suo romanzo: «Signore, rimani con noi, già si fa notte».
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