Il discepolo ignoto: metafora del dolore del mondo. Un romanzo poco conosciuto di Francesco Perri.

 

   Il 3/1/2022 è stato pubblicato su  “Il Quotidiano del Sud” questo interessante articolo del prof. Giuseppe Italiano.          

              


               Può un libro manifestarsi valido dopo più di ottant’anni dalla sua pubblicazione? Certamente sì, quando contiene pagine che comunicano valori al cuore dell’uomo. E  una rilettura de Il discepolo ignoto - Romanzo storico del tempo di Gesù (Garzanti, Milano, 1940), opera  poco conosciuta di Francesco Perri (Careri 1885 - Pavia 1974), non risulta inutile; anzi serve ad offrirci ammonimenti sempre attuali.

               Se si volesse considerare la distinzione tra “scrittori magri” e “scrittori grassi”, sicuramente Francesco Perri verrebbe inserito tra i secondi. Tale distinzione,  che è dello scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton (Londra 1874 - Beaconsfield 1936) e che è stata ripresa da Giuseppe Tomasi di Lampedusa e da Walter Pedullà, spesso perde il suo valore indicativo, poiché vi sono scrittori difficilmente collocabili nell’una o nell’altra parte. Per Perri il dubbio non c’è: egli è uno scrittore che non lavora a sfoltire, tende piuttosto ad impinguare la pagina; quindi uno “scrittore grasso”.

               Il discepolo ignoto (Garzanti, Milano, 1940) è l’opera più emblematica del suo stile folto; un grande affresco di masse umane in attesa di nuovi eventi capaci di cambiare il mondo. L’opera ebbe un lungo periodo di gestazione. Dalla seconda metà degli anni Venti, le esigenze pratiche della vita non concessero allo Scrittore molto tempo per lavori che non fossero immediatamente remunerativi. Perri aveva pagato a caro prezzo il suo coraggio di scrittore: I conquistatori, del 1925, primo romanzo italiano apertamente antifascista, gli aveva fatto perdere il posto di lavoro alle Poste e gli aveva precluso le possibilità di collaborazione su giornali o riviste.              


              Ricordando quel periodo nero della sua vita, così scrive il 20 giugno 1971 su “La Provincia Pavese”: «Io avevo speso quel poco che mi occorreva per fare una abitazione decente a Milano, e il resto doveva venire da lavori spiccioli, ma non tutti potevano essere firmati. […]. Al romanzo [Il discepolo ignoto] potevo lavorare a tratti e avevo preso un tema difficilissimo. […]. Ma i figliuoli dovevano mangiare e andare a scuola ed io dovevo provvedere: al mio romanzo potevo dedicare briciole di tempo. Tornavo da Brera e trovavo altro lavoro da fare: riduzioni di libri per la “Scala d’oro”, novelle per riviste Rizzoli, mio generoso amico».

               Tra le riduzioni per ragazzi che lo Scrittore esegue vi è il capolavoro del polacco Henryk Sienkiewicz; riduzione che viene pubblicata nel 1935 dalla UTET di Torino. Si tratta di quel fortunato Quo Vadis?, che avrà esercitato una tale influenza sul cristiano Perri, da indurlo, o da convincerlo del tutto, ad affrontare un lavoro per certi aspetti simile a quello del Premio Nobel polacco: simile per l’ambientazione geo-storica contrassegnata dal contrasto tra mondo pagano in crisi e mondo cristiano in atto di affermazione.              


                            Con frequenti interruzioni, è presumibile che il romanzo abbia visto, nella sua preparazione, buona parte degli anni Trenta; con punte di maggiore impegno verso la fine degli stessi, con l’avvicinarsi del secondo conflitto mondiale.

                              Il dramma che l’uomo sentiva e che gli derivava dalla precarietà della vita in quel determinato periodo, fu il dramma che lo Scrittore volle rappresentare, traslato ai primi anni dell’era cristiana, con distacco temporale di quasi venti secoli. Era impresa nuova nella letteratura italiana di quei decenni. Perri si rifugiò con la fantasia nella Roma imperiale di Tiberio e nella Galilea; e trasferì là le sue ansie.

                              Riversò la sua empatia al dolore umano in una storia che prende lo spunto da un passo del Vangelo di Marco. Nel narrare l’arresto di Gesù nel Getsemani, così l’Evangelista: «E tutti, lasciatolo, se ne fuggirono. E un certo giovinetto lo seguiva, vestito di lino sulla nuda carne, e i soldati lo presero, ma egli, lasciando andare il panno di lino, se ne fuggì ignudo» (cfr. Mc 14, 50-52). Solo Marco, tra gli evangelisti, scrive di lui. Perri attua, a modo suo, uno dei punti della polemica romantica e antilluministica: arriva cioè a spiegare con la fantasia e col sentimento ciò che era negato spiegare con l’intelletto. E crea una storia il cui cardine è costituito da tale giovinetto; gli dà un nome, Marco Adonia, e lo fa protagonista del suo lungo romanzo.              


Marco Adonia è figlio del romano Valerio Grato, governatore della Giudea; e di Micol di Fabi, ebrea della stirpe dei Maccabei. Dopo la morte del padre, Marco vive la sua prima giovinezza nella fastosa Roma di Tiberio, adottato da Valerio Messala. Varilia, moglie del Messala, e Marco s’innamorano; la tresca viene scoperta e per punizione Varilia viene relegata a Reggio, nel Bruzio; e Marco mandato nella Giudea, il cui governatore era Ponzio Pilato. In Giudea al giovane viene affidato il compito di debellare una banda di briganti zeloti, capitanata da Eleazaro. Vive con la banda una amazzone decisa e irriducibile; Marco scopre che l’amazzone è sua madre; e resiste al pressante invito di lei a passare dall’altra parte; ma egli è un romano e deve portare a termine la missione affidatagli.
               Incontra Giovanni il Battista; incontra Gesù nel deserto. Rimane affascinato da quest’ultimo e sorpreso dalla saggezza delle sue parole; e ciò segna una svolta nella vita di Marco. Il destino gli apparecchia le circostanze per un graduale avvicinamento a Lui, a Colui che parla di amore disinteressato, di regni spirituali, di fratellanza universale senza alcuna distinzione di classi sociali. E perde tutto: l’amore passionale (Varilia viene uccisa dagli zeloti, dopo che era riuscita a fuggire dal suo esilio di Reggio nell’intento ardito di raggiungere Marco); e l’amore materno (Micol viene uccisa dagli stessi soldati del figlio).              

                     Marco rimane solo, tocca il fondo del dolore e si accorge che era quella la condizione necessaria per avvicinarsi al Nazareno. Dà tutto ai poveri e dà se stesso a Gesù; anche la sua vita, quando viene lapidato per avere annunciato per primo la resurrezione del Cristo.

                    Attorno a questa trama, ridotta all’essenziale, ruotano episodi satelliti, abilmente innestati dall’autore alla storia principale. C’è in Perri una considerevole capacità nel dipanare le vicende e nel mantenere sveglia l’attenzione del lettore. Egli fa sfoggio, nel Discepolo ignoto, di un vasto vocabolario, assai apprezzabile per un approfondimento puntuale del mondo che andava rappresentando. Il suo narrare assume spesso il costrutto sintattico dei grandi classici dell’epica; conosceva benissimo il mondo classico e ad esso sapeva adattare la sua fantasia.

               La terza parte della storia, intitolata La buona novella, appare la più riuscita, la meno “grassa” di tutto il romanzo: vi traspare una maggiore attenzione ad evitare il peso delle ripetizioni; e le azioni vengono talora efficacemente rappresentate non nella loro successione cronologia, ma in particolari analessi.

               Il Perri ama procedere nella scrittura attraverso linee narrative orizzontali e distese. Il pathos è reso dalla drammaticità degli eventi, dalle immagini icastiche, dalla grande sofferenza che sembra aleggiare su ogni cosa. Tutto il romanzo diventa metafora del dolore universale del genere umano.


              L’opera del Perri si inserisce degnamente in quel filone della «romanzeria archeologica» di cui scrive Gesualdo Bufalino nella Nota al Quo Vadis? edito da Sellerio (Palermo, 1982).

             Perri era stato punito pesantemente per il suo spirito di libertà; non volle più narrare palesemente ciò che gli urgeva dentro e prese a pretesto la storia per poterla metaforizzare. Ecco che i delatori del periodo imperiale diventano allegoria delle spie del “ventennio”; ecco che la prudenza espressa dal precettore-filosofo Magacle - «la verità deve guardarsi bene dall’apparire» - altro non è che la necessaria «dissimulazione onesta» (Torquato Accetto, Della dissimulazione onesta, a cura di Salvatore Silvano Nigro, Einaudi, Torino, 1997. È un trattatello del 1641. Accetto è nato a Trani intorno al 1590)  per poter sopravvivere al regime dittatoriale; ecco che, in alcune pagine, lo stesso Tiberio ricorda il capo del Fascismo.

              Si legge a pagina 375 a proposito del Dio unico: «Aveva dato ai suoi figli il dolore come un divino rimedio alla loro inferma natura, e come correttivo all’incomparabile dono della libertà. Come il sale e la tempesta purificano e rendono salubre l’acqua del mare, così il dolore purifica l’uomo». Il religioso Perri, deluso dagli uomini, si rivolge al Dio degli onesti; e così conclude il suo romanzo: «Signore, rimani con noi, già si fa notte».

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