Gli "Emigranti" di Perri e il borgo abbandonato, Careri(RC)
Vi riporto un breve resoconto della giornata del 24 luglio 2024 a Careri che ha visto come protagonista lo scrittore Francesco Perri, gli artisti di Artami e il quartiere Ruga Randi ormai dolorosamente abbandonato. In questo quartiere nacque lo scrittore nel 1885 e nel 1974 in questo suo paese volle essere sepolto, dopo aver vissuto la sua vita nel nord Italia. I disegni e i testi che vedete sui muri, le porte, gli angoli del quartiere sono stati realizzati da Carmelo Albanese. Francesco Perri fu scrittore, giornalista, poeta; con straordinario impegno civile lottò per la libertà e la democrazia e ciò gli costò anche il carcere e la perdita del lavoro. Quest’anno ricorre il 50°annivversario della sua morte .
L’associazione culturale Francesco Perri, nata nel 1992 qui a Careri, con scarse risorse e sostegni cerca di contrastare questa descrizione profetica di Francesco Perri e quest’anno, incontrando lungo il suo cammino gli artisti di Artami, protagonisti della mostra itinerante che potete ammirare, ha immaginato che l’arte può salvare e preservare la bellezza del mondo, anche di questo piccolo mondo, anche quando questa bellezza è dolorosa, anche quando è triste ricordare.
Questo borgo di Careri, oggi quasi deserto, diventa un simbolo del fenomeno migratorio e delle sue conseguenze. Questo svuotamento non è solo un fenomeno demografico, ma un profondo trauma culturale e storico, che segna l'identità di questi luoghi. Il romanzo di Perri invita a riflettere sulla perdita e sulla necessità di preservare la memoria storica e culturale di questi borghi ormai quasi spopolati. Careri non è solo uno scenario, ma con il suo silenzio è diventato la testimonianza delle cicatrici lasciate dall'emigrazione.L' associazione Artami (Recupero arti, tradizioni e mestieri italiani) che ha presentato a Careri la mostra sull'immigrazione, di cui vedete qui solo alcune delle numerose e straordinarie opere, ha reso ancora più chiare e suggestive le storie e le immagini degli emigranti descritti da Perri in Emigranti, primo romanzo al mondo che racconta le vicende dell'emigrazione, e le raffigurazioni artistiche dei migranti attuali.
L’associazione culturale Francesco Perri, da quando si è costituita nel 1992 collabora con il mondo dell’arte, il nostro statuto lo prevede espressamente e mi piace in questo contesto ricordare ancora le parole di Perri sull’arte. Il breve testo di Perri che vi leggo testualmente è tratto dalla conferenza al circolo dei calabresi a Milano nel 1963:
“ E che cosa è un’opera d’arte, un romanzo, per esempio, se non un figlio, una emulazione dell’opera della natura, un dar vita a creature che non sono mai esistite e che, pure avendo una personalità distinta dalla nostra, partecipano a tutta la nostra vita di uomini; amano, soffrono, si sacrificano come gli uomini creati da Dio e, come quelli, si fanno amare, odiare, compatire, desiderare. Per tanti secoli e per tante civiltà un’opera d’arte è stata sempre questo e non altro che questo.“
L’ emigrazione dei giovani pandurioti, oggetto dell’appassionato racconto di Francesco Perri nel suo capolavoro “Emigranti”, è il segno di una sconfitta apportatrice di lutti e dissipazione culturale per la piccola comunità di Careri, che nel libro rappresenta la tradizione popolare di tutta la Calabria. Il pianto dell’autore si accomuna con la nostalgica visione dell’altro grande scrittore a un dipresso della stessa età e dello stesso luogo, Corrado Alvaro, a cui fa eco un terzo grande scrittore, anch’egli quasi coetaneo e compaesano, Mario Lacava. Alvaro, consapevole della rovina della civiltà tradizionale, si impegna a ricordarla meditando sul fascino della sua profonda ricchezza umana. Lacava la tratteggia con amara lucidità, trattenendo l’emozione, da medico provetto qual era. Perri vi si attacca appassionatamente, intuendo quanto sia disastroso lo sfacelo di una cultura che appartiene ad una civiltà distesa in tre continenti per migliaia di anni: rovina di cui l’emigrazione forzata nelle Americhe di giovani contadini calabresi è un vivido simbolo. Credo che questa sua profonda intuizione non derivi da particolari conoscenze storiche e nemmeno soltanto da riflessioni della mente, ma sia il frutto di una poetica visione con una comunicazione razionalmente incomprensibile e tuttavia misteriosamente vera, suscitata dall’amore viscerale per la sua gente. Un amore che gli ha permesso di udire la voce muta di questa terra, che narra l’umile epopea dei suoi abitanti e si duole con essi della subìta spoliazione. Ma di quale immenso disastro sto parlando? Introduco la mia risposta con una domanda. Come mai in questa terra si può radere al suolo un casolare, con la sua architettura povera ma armoniosa ed il suo colloquio corretto con l’ambiente, ed edificare al suo posto un palazzone proteso ad azzannare ogni velleità di gusto e di paesaggio, senza che nessuna autorità muova obiezioni, mentre, a Pisa o in tanti altri luoghi dell’Italia centrale e settentrionale, se si tocca una tegola si possono passare guai? La risposta è che la tegola di Pisa è segno di una civiltà vivente e vigile, il nostro casolare è il residuo insignificante di una civiltà di fatto morta ed assente, un osso di seppia qualunque.
La civiltà a cui mi riferisco ed in cui per quasi due millenni visse pienamente questa terra con la sua gente, è quella generata in età imperiale romana, verso il terzo secolo d. C., e universalmente condivisa fino ai primi decenni del XIII secolo. Dal ceppo della civiltà tardo antica nacquero, infatti, due polloni, diversi in vari aspetti di gusti, ma spiritualmente e artisticamente uniti: la tradizione romanica, nella parte occidentale dell’impero romano, e quella romaica, nella parte orientale. Nell’Italia meridionale le due tradizioni, fra loro connesse, si congiunsero anche ad altre culture, specialmente quella araba. All’inizio del secolo XIII, nel Regno federiciano, si viveva una cultura mista di radici romaiche e romanze, con grandi apporti arabi e piccole influenze anche tedesche!
Questa mirabile fusione delle due tradizioni tardo antiche si può riconoscere ben attestata in Calabria in fenomeni culturali di primaria importanza. Ne indico tre: lingua; architettura religiosa; spiritualità monastica. Come ha bene affermato il compianto studioso Franco Mosino[1], la nostra tradizione linguistica gode sia dell’apporto greco della Magna Grecia rifluito nella sua evoluzione romaica, che conserva vistosi prestiti della lingua latina, sia dell’apporto latino, che a sua volta in età imperiale aveva acquisito numerosi prestiti dalla cultura greca da cui dipendeva. Le nostre chiesette a navata unica di tradizione romaica, nella loro struttura, offrono molti elementi presenti nelle chiesette romaniche a navata unica lombarde e francesi.[2] Le chiese romaniche di monasteri greci calabresi non presentano nessun contrasto fra l’architettura normanna ed il culto orientale. Fra il monachesimo calabro greco e quello dell’Occidente preromanico e romanico non c’è nessuna sostanziale differenza nell’esperienza di fede, nello slancio contemplativo e nemmeno nelle vicissitudini contingenti. Questi sono valori che dovrebbero essere considerati preziosi e invece sembrano non esistere nella consapevolezza dell’attuale maggioranza dei calabresi, per non dire della cultura italiana in genere. La causa di tanta perdita è dolorosa, confortata dal fascino umile e intenso della fedeltà popolare.
Sul finire, infatti, del XIII secolo, si diffuse nelle classi colte cittadine la tendenza a differenziare l’Occidente dall’Oriente, che politicamente e territorialmente versava già in una crisi mortale. Dall’età angioina in poi, come insegna Vera von Falkenhausen,[3] la cultura ufficiale in Calabria non fu più quella romaica. Si creò una strana dicotomia: l’Occidente, già ai primordi dell’Umanesimo, si risvegliò all’attenzione della lingua e della cultura greca, ma, a parte i manoscritti, prese in considerazione esclusivamente l’età classica e disprezzò quella dei secoli che cominciarono a chiamarsi medievali. Anche gli eruditi locali si abituarono a riconoscersi soltanto nella Magna Grecia. D’altra parte, la cultura obliterata era rimasta in Calabria priva di maestri, che risiedevano nei monasteri greci, ormai rivolti ad una inarrestabile decadenza, accentuata dalla loro trasformazione in masserie, a beneficio dei commendatari, che erano gran signori e cardinali. Le biblioteche monastiche caddero in disuso e divennero appetibili agli studiosi delle scuole umanistiche di Roma, Milano, Firenze, Venezia e altrove: per questo motivo, gran parte dei nostri preziosi codici manoscritti furono salvati, sottratti alla nostra sopravvenuta incoscienza. Tuttavia, se la parte dotta di quella cultura millenaria a un dipresso scomparve, la sua eredità civile fu mantenuta. Essa, mirabilmente, fu fedelmente tramandata dalle classi dei contadini e dei pastori, considerate a torto ignoranti, e divenne modo di vita quotidiana, spiritualmente intensa, ma senza apparenze: come la religiosità, intrisa di fiducia familiare e adorazione; gli ornati tessili e lignei, che ripetono quelli sacri e regali dell’impero d’Oriente; l’agricoltura e i mestieri, la cui arte è retaggio della protostoria; l’architettura popolare, sia civile che religiosa, che non domina il paesaggio, ma vi si nasconde e lo abbellisce come un ricamo; l’assetto del territorio, a misura d’uomo; la lingua antichissima; la mentalità contemplativa; il gusto musicale, anche nei campanacci delle capre. Questa tradizione fedele all’antica cultura si continuò e si diffuse soprattutto nei paesi d’altura e lungo le vie degli altipiani, le più brevi e pertanto più percorse dalla gente, improntando di sé anche la natura e gli oggetti, che incessantemente la rievocano. Per questi motivi la Calabria che amiamo offre il fascino di bellezze non monumentali, ma appassionanti, e tutti i suoi luoghi attraggono con la narrazione di eventi che attraversano epoche molteplici. La tradizione del popolo, a cui va tutta la nostra gratitudine, durò quasi intatta fino alla metà del secolo XX, ma già nel XIX il suo rilievo sociale, di fatto maggioritario fino a quando dominarono i baroni che vivevano soprattutto a Napoli ed affidavano lo sfruttamento dei feudi a persone che provenivano dal ceto popolare, era stato intaccato dalla crescente borghesia, che diventò dominante dopo il terremoto del 1783 con i proventi economici a favore di questa classe provocati dalla Cassa Sacra. La cultura dei signori borghesi, se esisteva, si informava alle idee illuministiche che mostravano il più grande disprezzo per l’età tardo antica, ritenuta deleteria; per la cultura romaica, che fu detta bizantina poiché Bisanzio era stata una città greca antica; per il medioevo in genere. Con queste idee si formarono i professionisti, i maestri, gli uomini di potere, anche religioso, che ne tramandarono l’ignorante disprezzo verso la nostra bimillenaria cultura. Anche le istituzioni preposte alla salvaguardia dei beni culturali, almeno fino a quasi la fine del secolo scorso, prestarono scarsa attenzione ai reperti romaici, comprese le chiesette, che erano disseminate in tutto il territorio e molte di esse vennero distrutte proprio durante il XX secolo; e lo scempio continua. L’attenzione, quando c’è, di tutti i libri di scuola italiana per la cultura del Meridione, ancora oggi da Montecassino e Bari passa in Sicilia. La storia della Calabria, per le scuole italiane, dalla Magna Grecia salta alla questione meridionale ed all’emigrazione, con una discreta attenzione soltanto per la nostra malattia letale, che è la ‘ndrangheta. Se i nostri maestri, preti, professionisti, amministratori e simili volessero, come è loro dovere, conoscere la cultura della gente a cui devono fornire la loro guida intellettuale, avrebbero bisogno di adire alle pubblicazioni specialistiche (Burgarella, Falkenhausen, Follieri, Guillou, Lucà, Noyé, Orsi, Pertusi, Rohlfs, ecc.) e dovrebbero innanzi tutto conoscere i tanti volumi della Storia della Calabria editi da Giuseppe Gangemi tra la fine del secolo scorso e gli inizi di quello attuale, con interventi dei maggiori studiosi. Due secoli di ignoranza nei nostri confronti, locale e nazionale, preceduti da un plurisecolare disprezzo, hanno creato il disastro amaramente contemplato e pianto da Francesco Perri.
Tuttavia, ancora oggi, a secolo XXI inoltrato, la terra continua a chiamare, invocando la riscoperta dei tesori umani di cui è impregnata ed io conosco esponenti di giovani generazioni che ne ascoltano e ne ripropongono l’invito, anche se essi costituiscono una quasi insignificante minoranza. L’amico che oggi mi ha dato la possibilità di essere presente, il dr Alfonso Picone, instancabile camminatore e indagatore, impegna tutto il suo tempo libero a interrogare gli alberi, le rocce e i torrenti d’Aspromonte, traendone mirabili narrazioni. L’altro amico che si è aggiunto a noi ed a cui io sono legato da un amore fraterno, il dottor Tito Squillaci, per molti mesi dell’anno pediatra missionario in Africa, ha compiuto il miracolo di ottenere che ancora oggi, estate 2024, schiere di giovani entusiasti continuino a godere di comunicare fra loro e con i fratelli ellenici nella bella lingua greca di Calabria, di cui il grande filologo Gerhard Rohlfs dichiarava l’avanzata agonia già negli anni 60 del secolo scorso. Quanto, poi, sia benemerita e preziosa l’opera del dottor Giulio Strangio, che appartiene alla famiglia di Francesco Perri, e dei suoi collaboratori in favore della cultura calabrese, oggi, qui, appare a tutti noi evidente. Io confido anche nell’apporto spirituale e culturale dei “cugini” d’Asia e d’Africa, molti di loro di cultura araba, ben nota in Calabria da più di un millennio e parecchi provenienti da terre che un tempo appartenevano all’impero romano d’Oriente. Essi approdano moribondi nella nostra terra, dopo una drammatica e troppo spesso mortale fuga dalle tragedie provocate in gran parte dalle ricche nazioni d’Occidente che ignominiosamente li respingono; qui, in Calabria, quasi dappertutto vengono accolti con amicizia, curati con amore e dopo poco tempo sono in grado di collaborare per il riscatto loro e della nostra antica cultura. Grazie
Domenico Minuto, luglio 2024
[1] Franco Mosino, Storia linguistica della Calabria, I, Marra, Cosenza 1987, pp. 33 sgg.
[2] Domenico Minuto, Sebastiano Maria Venoso, Chiesette medievali calabresi a navata unica, Marra, Cosenza 1985, pp. 131-154.
[3] Vera von Falkenhausen, I Bizantini in Italia, Scheiwiller, Milano 1982, p. 127.
Presidente dell’ Associazione culturale Francesco Perri di Careri
Commenti
Posta un commento